L’eremita

Avvenne il giorno – forse era primavera – che lui spinse i propri piedi, carichi più di pensieri che di voglia di andare, in quella valle che ora stava rimirando dall’alto di un roccione. Gli stessi piedi che, d’un tratto decisero di andare su, su,… lasciando la valle per portarlo dove ora si trovava: immerso nell’azzurro, sopra una distesa di verde, là,… laggiù in fondo.

Proprio lì, e in quel momento, e inaspettatamente, il mondo,… le cose, le sue cose di sempre, ebbero per lui un senso nuovo; mai prima conosciuto. Cose.  Che  ricordava senza sentirne più il bisogno, né  la voglia di possesso: cose lontane, cose distanti…..

Era rimasto a lungo silente  quel giorno in quell’azzurro; in un tempo senza misura, né corto né lungo. Poi un’idea gli salì piano piano lungo il corpo e gli permeò la mente: “Non c’è nulla perché io non possa continuare qui la mia esistenza! “si disse.  Con un nodo di commozione nel pronunciare la parola esistenza.

Passare dal vivere convulso , agitato, che da tanto tempo conduceva, a quella calma campestre, che in quel momento assaporava, gli sembrò facile; quasi naturale : la vita, gli anni – pensava – sarebbero continuati a scorrere comunque, insieme con l’età. Ma, in questo pensare non si accorgeva d’aver la mente rivolta solo verso se stesso; o meglio solo su quella  parte di sé che, in quel momento, vedeva la propria esistenza come un breve  semplice segmento :  quello tra il vivere e il morire.

Non gli venne, neanche un poco, di soffermarsi sul percorso vario – mutevole – del vivere : le abitudini, gli affetti,… le gioie, i dolori,…quanto – insomma – la nostra appartenenza al cosmo ci riserva.

 

Affetti? Ne aveva avuti pochi.

Amori? Forse.

Delusioni? Altrettante quante le illusioni che si era fatto.

 

Se ne stava dunque, ora, su quello spuntone di roccia a guardare là, in basso verso quella grandiosa vista verde di alberi. E questa cosa la faceva ormai da tanti giorni, tante volte al giorno: guardava e taceva, guardava e pensava. Qualche volta – quando voleva affidarli all’aria – traduceva in parole i suoi pensieri, biascicandoli a fior di labbra. Poi scorreva con gli occhi  quella stessa aria, quasi li rileggesse in quel fluire.

 

Faceva l’eremita: era la sua vita ora! Quella vita in cui un giorno– forse era primavera – si era ritrovato, così,… per caso.

Di una piccola cavità della collina, troppo piccola per essere una caverna, s’era fatto più un rifugio che una casa; e lì aveva trovato anche un nome nuovo: quello che gli avevano dato le persone che da lì passavano e talora gli lasciavano da mangiare.

Ora si chiamava Blu, forse per via dei suoi occhi azzurri; e anche silenziosi a quel passare.

Anche i giorni passavano, e molti ne erano passati ormai. E così trascorreva la vita  di Blu: monotona più che tranquilla. Senza l’appagamento che  la mente ha  quando è serena. Ma con l’appassimento che sente quando vuol dimenticare.

 

 

Guardando e riguardando la sua valle capitò che fra i tanti, fra i mille alberi, Blu ne distinguesse uno: gli parve particolare e,… se lo scelse come amico. Da lassù lo rimirava a lungo, chiedendosi quale probabilità avrebbe avuto di riconoscerlo, una volta che fosse sceso nel fitto del bosco. E mirandolo e rimirandolo, il suo albero, se lo cresceva con lo sguardo. Infine decise e si mosse.   Prese dunque a scendere verso la valle, con il passo che diventava sempre più svelto, per la paura di perdere quell’immagine che aveva fissata nella mente.

Le cose fortemente desiderate talvolta si avverano: e Blu, tanto  lo aveva desiderato che neanche si stupì quando facilmente riconobbe il suo albero. E lo abbracciò. E semplicemente ci parlò, convinto che avrebbero imparato presto a capirsi meglio: non esistono forse esempi di popolazioni che praticano queste comunicazioni?  Allora lui ci parlò tanto; con voce lieve, di sussurro.

Solo l’affievolirsi della luce che volgeva al tramonto lo staccò dal suo albero e lo riportò, col passo lento del corso del sole nel cielo, al suo rifugio.

 

 

Prese subito sonno Blu, ma non dovette essere stato facile il suo sonno, visto che gli aveva lasciato la testa confusa e lo sguardo stanco di sogni mal sognati. Ché tali sono quelli che a stento, a brandelli,  ti vengono senza poter poi riuscire a ricostruirne uno.  E in questo tipo di sforzo, nel quale si confondeva la sua mente, presto Blu scivolò nel precipizio dei suoi ricordi; che gli si presentarono affastellati. Roteando in uno spazio non conosciuto.

Gli parve allora di rivivere, tutta la sua vita trascorsa, nell’attimo di un lampo, rapido, che gli si infisse nel profondo. E pur se una sorta di debolezza prese ad avvolgerlo in tutte le membra, tuttavia senti forte, potente, il desiderio del suo albero. Tanto che, vacillante, lo raggiunse.

Stretto al tronco si confidava, si confessava, affidando a quella creatura – appena smossa dal vento – domande e aspettando risposte che non riusciva a cogliere.

Lo distrasse una nocciola che, uno scoiattolo, dall’alto, gli fece cadere sulla testa: forse per gioco, forse per errore,…forse…chissà? Comunque questo bastò perché la sua mente prendesse un’altra, inaspettata, via.

 

 

“La natura può darmi conforto- si disse- e questo albero lo ha fatto. Ma le mie risposte dovrò trovarle dentro di me. Devo trovarle dentro di me. Insieme alla forza per farlo: non è questo tronco, vivo sotto le mie mani ad essere muto, son io ad esser sordo. Troppo sordo: sono in questo verde da un lungo tempo ormai, la natura mi è d’intorno e soltanto adesso riesco ad apprezzarne le voci. Il vento che sfiora

l’erba, il suo frusciar nelle fronde. Le storie che racconta. Il rombo del temporale, il gocciare benefico della pioggia, il soffice cadere della neve. Le voci della vita, del bosco!”

 

Intanto lo scoiattolo era sceso dall’albero scrutando con ansia il suolo, alla ricerca della nocciola perduta, e un altro subito lo seguì con una grande voglia di giocare: preferivano il gioco alla concretezza della nocciola; e come bimbi presero a rincorrersi gioiosamente sull’erba e sui rami mentre Blu, pur attratto da quei giochi, era intento a scandagliare il proprio passato.

“Ho mai provato una tale allegria io? Non lo so, io stesso non saprei dirlo. Già da piccolo sentivo ripetermi che ero scontroso, magari lo ero!”

Con il pensiero lontano, fissando gli animaletti fra le foglie  si rivide bambino e decise: no, non ricordava una tale allegria. E questo pensiero gli fece male.

“Forse per questo mi rifugiati   fra il libri senza voglia di leggere; anche quando non ero più così bambino. Chissà?…. E da adulto, che ho fatto? Molto lavoro, molti conoscenti,… mi chiedo: e gli amici? Ho sempre avuto un “forse”, una riserva verso di loro. Se loro l’hanno avuta verso di me, cosa potrei dire? ”

Prese a lacrimare, Blu. “Sono un isolato!” si disse nella gola. “Incompreso perché non comprendo; solo perché mi isolo: non solo dagli altri, perfino da me stesso”.

Gli scoiattoli intanto si erano chetati : il loro animo avvertiva d’intorno una sofferenza vera; e la rispettavano.

Asciugandosi le gote Blu si rese conto che dopo un lungo tempo, finalmente, stava parlando di sé con se stesso; e con sincerità. Penso sia stato merito della sua lunga permanenza nella Natura, lontano da quegli schemi umani  chiamati civiltà. Si può anche accettare di star soli, senza alcuno cui mostrarsi quali si è, ma non d’esser tanto soli  da non mostrarsi a se stessi. Dimenticandoci. A questo pensava Blu quando gli venne in mente il proprio nome: era stato chiamato Michele.  “Come l’arcangelo guerriero bofonchiò, scarsamente convinto“. Poi si mise a ripeterlo – il suo nome- più volte, tante volte, prima bisbigliandolo, poi gridandolo agli alberi, e al mondo.

E,… avvenne allora che i suoi piedi si mettessero, da soli, a camminare; non più verso  il suo rifugio, ma oltre il bosco. Verso cose di un mondo da tempo lasciato, che voleva guardare con quegli occhi nuovi, che proprio il bosco gli aveva dato.